In questa classe, dove sono arrivata da poco, ho sentito forte la contrapposizione tra i sessi. Mi sembrava che non avessero tanto chiaro che essere persone significava includere il maschio e la femmina che è in tutti noi. Ho pensato di costruire un laboratorio che portasse tutti a riflettere, in modo implicito, su quelli che sono i pregiudizi che abbiamo dentro e quanto, questi modelli, paralizzino lo stare insieme e a volte, esasperati, portino alla violenza.
Il pretesto è stato la moda quindi, in ognuno dei sei incontri del laboratorio, abbiamo analizzato un elemento dell'abbigliamento. Le calze, per uomo e per donna sono state il primo oggetto. Attraverso la lettura della video pubblicità sono emersi gli stereotipi femminili (ma non maschili perché, ops, le pubblicità di calze per uomo non ci sono). Il passo ad un allargamento della lente che guardasse anche la realtà è stato breve (ed è stato loro, seppur pilotato...): "Ma prof, nelle pubblicità non ci sono le persone normali, come quelle che si vedono fuori?". "Sí, non frequentemente, ma ci sono". Ed ho mostrato loro pubblicità di abiti con donne anziane e sovrappeso, con coppie omo, con ragazze che avevano comportamenti non seducenti: cioè la vita.
Un altro incontro ha previsto la riflessione sui cappotti e sui giubbotti. Avevo preparato tre cartelli per ognuno di loro, il primo che diceva "vestito da donna", il secondo "vestito da uomo" il terzo "vestito da persona". Li ho fotografati con i soprabiti che avevano scelto, mentre tenevano i cartelli in mano in due negozi molto forniti del centro di Firenze. Hanno sperimentato che vestirsi da uomo, da donna o da persona non è molto diverso. È una metafora del mettersi nei panni dell'altro e ha permesso loro di avvicinare un luogo, che, altrimenti, non avrebbero affrontato mai: il reparto abiti del sesso opposto. Uno dei ragazzi mi ha detto "Prof, ma non c'è differenza tra essere vestiti da donna o da uomo, la cosa importante è stare bene!".
L'ultima proposta che ho fatto è stata di vestire i loro volti di ritagli di giornali di moda. Ho attaccato su fogli A3 quattro foto del loro viso e, mettendo a disposizione riviste come Vanity fair, Visto e simili brutture, ho dato la consegna di completare in modo romantico, aggressivo, swag e seducente le loro immagini. La riflessione conseguente è andata esattamente dove desideravo: è più efficace un messaggio veicolato dall'abbigliamento che dall'espressione del viso. Tra l'altro alcuni di loro avevano abbigliato i loro manichini con abiti dell'altro sesso perché più vicini alla loro idea di romantico o swag. Hanno riso, ragazze e ragazzi, vedendosi così.
Adesso, in classe, c'è un'aria meno tesa.
L'educazione è rivoluzionaria.
Elisabetta Grandis